Abbiamo bisogno di una magistratura autorevole, rispettata, responsabile.

Tra giustizialisti e garantisti, c’è la posizione intermedia di chi innanzitutto ritiene che le questioni della legalità, della certezza del diritto, della corruzione e della criminalità siano centrali nel caso italiano.  Dunque c’è bisogno (più che in altri paesi) di una magistratura autorevole, rispettata, responsabile. I numeri e i problemi della criminalità sono enormi: la magistratura deve avere tutti i mezzi per potere intervenire adeguatamente e liberamente. Purtroppo, invece, esistono tante voci critiche, non provenienti soltanto da quei criminali che hanno tutto l’interesse a parlare male della magistratura e delle forze dell’ordine. Vedi ad esempio un famigerato volume, pubblicato da Bompiani: il libro-inchiesta di Stefano Livadiotti, dal titolo L’Ultracasta.

Molti di noi sono favorevoli a cambiamenti importanti. Citiamo soltanto alcuni esempi di possibili cambiamenti:

1) l’introduzione di misure analoghe a quelle anglosassoni relativamente al reato di “disprezzo della corte”.

2) abolizione o drastico ridimensionamento del secondo grado di giudizio, in maniera da deflazionare il volume di processi trattati.

3) concentrazione di maggiori poteri discrezionali nelle mani del Procuratore della Repubblica, che di conseguenza avrà più responsabilità.

Sono soltanto tre esempi, sui quali ognuno può avere idee diverse (ed anche noi che lavoriamo a questo sito abbiamo idee diverse; ad esempio alcuni pensano anche alla trasformazione della sezione disciplinare del CSM, nei contenuti e nel metodo).

Non si tratta soltanto di un problema italiano; all’Aquila abbiamo cominciato occupandoci molto del caso americano; due link tra mille:

http://www.ilmessaggero.it/PRIMOPIANO/ESTERI/liberato_innocente_braccio_morte_usa_louisiana_glenn_ford/notizie/569819.shtml

http://www.giornalettismo.com/archives/1577411/gli-errori-dellfbi-che-hanno-ucciso-45-persone/

Scriveva Carlo Torre nella presentazione del volume “L’errore scientifico nel processo penale. Rilievi pratici e riscontri giurisprudenziali”, di D. S. Putignano, a proposito di <<una malattia vera e sostanziale che affligge i nostri processi penali e che li rende, con frequenza (non è la regola, intendiamoci) e gravità sconosciute alla gran parte dei cittadini, profondissimamente ingiusti.
Questa malattia si chiama anche errore scientifico, ma non solo. Anzi, se soltanto di errore si trattasse potremmo ancora esser tranquilli. Gli errori tecnici scientifici sono, per loro natura, correggibili: con la logica, con la sperimentazione, anche con il semplice buon senso.
Questa malattia si chiama, soprattutto, rinuncia all’assunzione di responsabilità da parte di chi deve investigare e giudicare; si chiama accomodarsi ad attendere i risultati di indagini tecniche illusoriamente ineccepibili e fondare su questi il nocciolo del processo penale.
E’ chiaro per chiunque che un processo così fondato non potrà tollerare, pena un disastroso fallimento, che gli elementi “scientifici” che ne costituiscono l’ossatura vengano messi in dubbio. Ed infatti spesso non lo tollera.
Quando racconto a chi non è di questo mestiere ciò che capita di vedere e udire nelle aule di giustizia, ciò che si legge in alcune sentenze, pensa che io scherzi o dica bugie. Nessuno può credere che davvero periti e consulenti tecnici, in discussioni che vedono in gioco la libertà e la dignità di un cittadino, siano disposti e pronti ad arroccarsi su posizioni insostenibili e combattere all’ultimo sangue per difendere ipotesi inconsistenti e fiacche, definendole ineccepibilmente “scientifiche”; e non è raro sentir dire di “certezze”; parola, quest’ultima, che, invece d’essere coraggiosamente bandita dalle discussioni tecniche nelle aule di tribunale, le infesta malignamente. Mi chiedo se questi periti e consulenti si rendano in qualche modo conto dei danni irreparabili che provocano, dapprima con i loro errori; poi, e soprattutto, con il testardo rifiuto di ammettere di averli commessi.
Tutti sbagliamo; e certamente non mi escludo dalla categoria di chi ha sbagliato. Mi escludo però, e senza esitazione, dalla spregevole categoria di chi, percepito il proprio errore, non ne dia immediatamente atto, attivandosi per limitarne, per quanto possibile, i guasti.
Manca nelle aule di giustizia, la cultura dell’ammissione dell’errore. Una malattia in origine di facile cura (quella prodotta, appunto, dall’errore) evolve così nella sua forma più grave e potenzialmente mortale. Essa si chiama disprezzo della verità>>.

La lezione dell’esperienza aquilana? Vista la miseria originaria della nostra struttura cognitiva, possiamo soddisfare soltanto una minima parte del nostro desiderio di sapere. Questo non vuol dire rassegnarsi ai tanti misteri insolubili dell’investigazione, del giornalismo, della criminologia, della giustizia, ma RAFFORZARE QUANTO PIU’ POSSIBILE LE COMPETENZE SCIENTIFICHE NELL’INVESTIGAZIONE E PORTARE A PROCESSO SOLTANTO UN PICCOLO NUMERO DI CASI. La cultura dell’investigazione deve essere modesta e minima, mite e moderata, ma allo stesso tempo determinata e preparata.

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