L’Italia ha bisogno di una giustizia minima, modesta, mite, moderata, ma rapida e dissuasiva.

Bisogna partire dall’idea di una fondamentale fallibilità degli esseri umani. L’unico rimedio è un’adeguata cultura istituzionale della responsabilità e dei controlli. Questo non vuol dire che bisogna intervenire e giudicare poco, ma che bisogna intervenire sui casi nei quali effettivamente è possibile intervenire (senza disperdere l’intervento repressivo in iniziative velleitarie). Proprio perché abbiamo bisogno di giustizia, è necessario che l’intervento pubblico non sia dispersivo, velleitario, controproducente.

Papa Francesco ha detto: “Chi sono io per giudicare? …”. Davvero molto difficile giudicare. Con questo sito vogliamo soltanto mettere in rilievo la rilevanza di un settore accademico/pratico e la rilevanza di una specifica prospettiva. Per spiegarci ancora meglio, per chiarire che quanto detto è importante anche da un punto di vista concreto, indichiamo soltanto un caso di proposta operativa, che è stata già proposta e che tuttavia è stata “comunicata” in maniera deludente e controproducente.  Nel discorso del 2014 alla delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, Papa Francesco ha segnalato che “si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio”, attribuendogli erroneamente scopi di “risanamento” sociale che, in realtà, non è in grado di  perseguire. Il populismo penale è il contrario della concezione del diritto penale come ultima ratio”.

Tentiamo di rispondere a 2 domande.

I domanda. In concreto, che cosa si propone?

I risposta. Osserviamo soltanto una proposta operativa, a titolo di esempio. Un aspetto concreto del  diritto minimo, modesto, mite è illustrato dallo schema di decreto legislativo che il governo ha approvato prima di Natale 2014 a proposito di non punibilità per alcuni reati, nei casi di particolare tenuità del fatto. Molti si sono dichiarati a favore; è stato detto che la giustizia <<mostra ogni giorno come fatti, pure astrattamente configurabili come reati, non sono in grado di ledere il bene protetto dalla norma incriminatrice. … La non punibilità per “particolare tenuità del fatto” non è una depenalizzazione perché non elimina, come da alcuni erroneamente sostenuto, i reati. Esclude la punibilità solo quando, in concreto, per le modalità della condotta del reo o per la lievità delle sue conseguenze, non sia arrecata alcuna offesa ai beni protetti dalle norme penali. Risponde, insomma, al principio fondante della civiltà giuridica secondo il quale se non vi è offesa, non vi deve neppure essere sanzione. Ovviamente, restano ferme le eventuali responsabilità civili e disciplinari dell’autore. Non c’è nemmeno il rischio di arbitri del giudice. Il giudice penale è già abituato a valutare l’effettiva gravità del fatto, quando concede le circostanze attenuanti generiche o computa la pena. L’irrilevanza penale del fatto è da anni applicata dal giudice di pace penale e dai giudici del Tribunale per i minorenni. Il giudizio deve essere motivato ed ancorato ad una effettiva valutazione del fatto posto in essere e della personalità dell’autore. Infine, non si devono dimenticare gli effetti deflattivi che la riforma potrebbe realizzare, permettendo di concentrare maggiori risorse su processi e reati, che effettivamente ledono beni individuali e collettivi>>. Si può ascoltare in proposito un intervento dell’allora presidente dell’ANM Rodolfo M. Sabelli:

http://www.associazionemagistrati.it/doc/1822/tenuita-del-fatto-non-e-una-depenalizzazione.htm

E’ possibile discutere in concreto soltanto di un’applicazione operativa di un principio di carattere generale, perché molti problemi vengono sollevati da ogni singola proposta. Ad esempio, nel caso in questione, tutti concordano sul fatto che le indagini degli investigatori e dei giudici sono troppo spesso appesantite da  fattoidi e fatterelli che sarebbe logico archiviare. Per evitare l’inflazione panpenalistica,  il decreto permette ai magistrati di dedicare le proprie energie ai  delitti che veramente destano allarme sociale. Ma si tratta di una responsabilità enorme, decidere quando il reato è tenue. Infatti, il decreto prende in considerazione reati puniti con una pena massima di cinque anni, che dunque sono spesso gravi, infatti vanno dall’omicidio colposo alla truffa aggravata, dall’occultamento di cadavere allo stalking. Sono in gioco altri principi, come l’obbligatorietà dell’azione penale e la discrezionalità del giudice. Sono in gioco anche altri problemi del sistema giustizia: e’ offerta la possibilità di rivalsa per un risarcimento in una causa civile, ma i tempi attuali rendono questa possibilità poco realistica. Infine, la nuova normativa vorrebbe togliere ai pubblici ministeri la possibilità di decidere quali reati perseguire e quali no, e, soprattutto, la valutazione dovrà essere motivata, sottoposta sia al controllo di un giudice sia al controllo della parte offesa (che potrà opporsi alla richiesta di archiviazione), ma potrebbe  <<diventare un alibi ulteriore per non indagare e archiviare il fascicolo per prescrizione senza nemmeno averlo mai aperto>>.

Incredibilmente, questo decreto legislativo, nato dalle migliori intenzioni, è stato rappresentato al peggio, come un deliberato tentativo di dare ulteriore potere ai magistrati, infischiandosene delle vittime, eccetera. E’ un esempio di quanto la comunicazione sia decisiva in tema di giustizia. Un approccio minimalista praticamente si risolve sempre in una proposta di deflazione penale e di pacificazione sociale. Ma deve essere presentato nella maniera migliore e motivato nella maniera migliore.

OCCORRE UNA DRASTICA RIDEFINIZIONE DELL’AMBITO DI INTERVENTO DELLA GIUSTIZIA CHE METTA LA MAGISTRATURA AL RIPARO DAGLI ERRORI E DALLE POLEMICHE INEVITABILMENTE CONSEGUENTI. COME? AD ESEMPIO, ABOLENDO UNO DEI TRE GRADI DI GIUDIZIO, FORMALMENTE O INFORMALMENTE (= RENDENDO MOLTO PIU’ DIFFICILE E COSTOSO L’ACCESSO). ALTRO ESEMPIO: RENDENDO ANCORA PIU’ STRINGENTE IL POTERE DEL PROCURATORE. ALTRO ESEMPIO: RIDUCENDO LA DISCREZIONALITA’ E L’AMBITO DI INTERVENTO DEI TAR E DEL CONSIGLIO DI STATO. INSOMMA, FARE MENO PROCESSI MA FARLI MEGLIO.

IN TAL MODO LA GIUSTIZIA POTRA’ SVOLGERE UN SUO RUOLO FONDAMENTALE: LA DISSUASIONE (COME DICEVA ANCHE BECCARIA)

II domanda. Di cosa abbiamo bisogno ?

II Risposta. Di una formazione che sia innanzitutto consapevole delle ragioni che hanno portato agli errori compiuti in questi anni, a livello investigativo e a livello giudiziario.

Leggiamo nella prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi nel 2014: <<… La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sul Borsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? … Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. … deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità>>.

Sarebbe erroneo se, in considerazione di queste premesse, si credesse che tutto si risolve con un generico appello al buon senso, alla moderazione, eccetera. Perché quanto scritto sopra è soltanto un esempio a proposito di un lungo discorso pratico, operativo, concreto: l’applicazione dello stesso principio in tutti i campi, avrebbe conseguenze rilevanti (come dimostrato dall’esempio sovrastante) e susciterebbe polemiche.

Il punto è stato ribadito il 23-1-2015, nella relazione per l’apertura dell’anno giudiziario, dal procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, come già aveva fatto nelle ultime due relazioni inaugurali. «Giacciono ormai da anni progetti completi per una depenalizzazione intelligente di molti reati. È giunto il momento di attuare tali progetti», ha detto Ciani, «incrementando l’area opportunamente potenziata quanto a strumenti dell’illecito amministrativo». «Pur nella doverosa attesa dei decreti delegati, la depenalizzazione di cui alla legge 28 aprile 2014 rappresenta un primo, seppur ancor timido, passo in tale direzione».

Si tratta di una “cura” indicata da tempo, ad esempio (all’inizio del 2013 !) da Ernesto Lupo, allora primo presidente della Cassazione e dal Pg della Corte Gianfranco Ciani. «Sono maturi i tempi per abbandonare, come in Francia e nel Regno Unito, la concezione “carcerocentrica” della pena (risalente al 1930) – ha osservato Ciani – per aprire la strada a sanzioni interdittive o prescrittive o che colpiscano, direttamente o indirettamente, il vantaggio economico del reato».

Eppure, queste prospettive, per quanto benintenzionate, sono insufficienti. Come dimostrato dai numeri:

http://www.corriere.it/cronache/16_giugno_29/errori-giudiziari-24-anni-24-mila-innocenti-cella-italia-3f534d0c-3e16-11e6-8cc3-6dcc57c07069.shtml

La Giustizia può essere allo stesso tempo compassionevole e dissuasiva.

Comments are closed.